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GRANGIA DELLA CERTOSA DI TRISULTI

I monaci certosini erano entrati a Trisulti il 25 settembre 1208, provenienti dalla diocesi di Albi, in Francia.
Giunsero in numero di 18, e ne presero possesso per volere di Innocenzo III, che aveva attribuito loro i beni del preesistente monastero dei monaci benedettini. Per essi, il papa aveva fatto costruire, a proprie spese nostris sumptibus , chiesa e certosa, di cui purtroppo non resta ormai quasi traccia. Infatti, l'attuale imponente edificio risale soltanto ai secoli XVII-XVIII, ossia all'epoca più florida della sua storia; e la sua costruzione fu resa possibile soprattutto dai vantaggi che i monaci seppero trarre da una saggia amministrazione della grangia (etimologicamente, l'insolito vocabolo vuol dire granaio) o tenuta di Tecchiena, in cui lavorava manualmente una colonia di conversi certosini.
Alla comunità monastica di Trisulti, in continuo aumento, era difficile trovare i mezzi occorrenti per il sostentamento e le opere, qualora fosse rimasta confinata tra gli aspri e boscosi contrafforti della Rotenaria. Per questo i monaci scesero a valle, come le (allora!) abbondanti e cristalline acque del Fiume.
La vendita del minuscolo feudo, da parte della Camera apostolica, si spiega facilmente se si tiene conto delle più che precarie condizioni in cui versava il papato, afflitto dalla maledizione del cosi detto Grande Scisma d'Occidente. 
E i certosini ebbero la proprietà della torre e della tenuta (in latino,  tenimentum  con lo sborso di 230 fiorini
di vero oro, di giusto peso e di buona lega .
Forse, fu per essi più pesante la liquidazione dovuta alla famiglia Rocchetta, già sopra ricordata.
Nel pubblico istrumento, rogato il 21 aprile 1395 dal notaio Bartolomeo de La Capra, v'è un codicillo che riporta a costumi di altri tempi. Ogni anno, per la festa dei santi Pietro e Paolo, il monastero di Trisulti doveva offrire alla Camera apostolica due libbre di cera fresca.
Insomma, nonostante l'acquisizione, da parte dei monaci, di ogni diritto sulla torre e le sue pertinenze, rimaneva un indefinibile e pur sempre reale vincolo feudale tra gli acquirenti e la Camera apostolica. Tanto è vero che, lo ricorderemo in seguito, un'apparente inosservanza dello stesso uso metterà in pericolo il possesso di tutta la tenuta da parte dei monaci.
Sorge spontanea una domanda, a cui non è facile dare una risposta documentata ed esauriente, e cioè: In quale condizione vennero a trovarsi gli abitanti del castello di Tecchiena di fronte ai nuovi padroni? E' accertato che i certosini seguitarono ad eleggere il castellano, a cui era affidato il compito di fare osservare gli Statuti.
Sembra pure certo che gli abitanti di Tecchiena non avessero altro ruolo che quello di semplici coloni che lavoravano sulle terre della certosa. Ma, almeno al principio, stabilirono essi monaci la loro dimora accanto oppure entro il muro che cingeva il castello? Francamente, crediamo di no. Per noi è cosa ovvia che la prima colonia di monaci agricoltori fissò altrove la sua sede, lungi dall'abitato. Anzitutto, per desiderio di quiete e di ritiratezza. Il monaco è colui che vive isolato. Ma, oltre questo motivo di carattere istituzionale, v' è una indicazione che viene dalla storia.
Nel 1473, un notaio attaccabrighe, certo Niccolò, oriundo alatrino ma con dimora a Ferentino, impugnò la validità degli Statuti per il fatto che il castello era venuto meno. Dunque, tra il 1395 e la detta data, il castello, o centro abitato, non solo non aveva accolto i monaci, ma era andato in rovina, forse in seguito ad abbandono, anziche per demolizione. 
A nostro parere, il popolo aveva preferito scendere verso i campi che, a motivo del progressivo disboscamento, occupavano uno spazio sempre più vasto.
Una volta che le scorrerie di signorotti e di bande armate erano un poco diminuite, se non proprio cessate, i coloni preferivano costruire le proprie capanne in mezzo ai campi del loro lavoro quotidiano, cosi da risparmiarsi la fatica di dovere continuamente scendere e salire il Monticchio, dove non c'era acqua e mancava lo spazio per gli animali che costituivano la loro principale
ricchezza.
In ciò seguivano l'esempio dei monaci che, crediamo fin da principio, si erano insediati alle falde del Monticchio, in luogo poco panoramico e privo di aerazione durante l'estate, ma comodo per chi doveva lavorare, raccogliere i frutti della terra e conservarli.

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