Ma, durante i
cinque secoli della loro presenza a Tecchiena, il pacifico possesso
della tenuta fu, per i certosini, un sogno irraggiungibile. Si può dire
che non vi fu un sol momento in cui non fossero impegnati a difendere la
loro proprietà e i loro diritti. Ne, ci sembra, poteva essere
altrimenti. A monte dell'acquisto da essi fatto v'erano troppe
incertezze e ambiguità.
Anzitutto, i confini erano mal definiti. Nonostante la serqua di
toponomi con cui, nell 'istrumento di cessione, essi sono indicati,
rimanevano pur sempre indeterminati e vaghi, poiche in quell' occasione
non vi fu alcun sopralluogo per porre i termini.
Rimaneva poi da determinare il carattere della giurisdizione che i
monaci potevano esercitare sulla torre, il castello e le sue pertinenze.
Da una parte, si direbbe che essi vi vantassero diritti sovrani, in
quanto feudatari: per questo nominavano il castellano, incaricato di
vigilare circa l'osservanza degli Statuti e di rendere giustizia, con
potere di infliggere pene pecuniarie ai contravventori.
Nondimeno, essi rimanevano obbligati a pagare un censo annuo alla Camera
apostolica; non disponevano d'una milizia propria e, almeno a cominciare
dal secolo XIV, il castellano amministrava la giustizia nella sua sede
di Alatri, posta dapprima presso la chiesa di San Silvestro e quindi,
dal 1548, in quella di San Bartolomeo di Portadi. Inoltre, per
l'applicazione delle pene, il castellano era costretto a servirsi del
corpo di polizia di Alatri.
Finalmente, bisogna tener conto dell'appetito che, da sempre, i beni
ecclesiastici hanno stuzzicato, in alto e in basso, vicino e lontano! E
la fertile Tecchiena, che l'operosità dei rudi ed esperti conversi
certosini aveva trasformato in una tenuta modello, costituiva una grossa
tentazione per signorotti sfaticati e cupidi.
A voler ricordare tutti i casi occorsi tra il Quattrocento e la fine del
Settecento, il discorso diventerebbe lungo e complicato come le tortuose
vie della cupidigia e ahimè! della stessa « giustizia» umana.
Accenniamo perciò soltanto alle liti sorte a motivo dei confini con
Ferentino sul monte Radicino (nel 1429), e con Alatri a proposito del
monte Reo (1763); all'opposizione degli stessi Comuni al tentativo dei
monaci di ridar nuova vita al castello di Tecchiena (1478), mediante
l'offerta di vantaggi a chi avesse desiderato costruirvi la propria
abitazione; alla dispettosa invadenza del già ricordato notaio
Niccolò d'Alatri, che, volendo tenere a pascolo sul terreno dei monaci
ogni sorta di bestiame, intentò una causa che si trascinò per i
tribunali dal 1473 fino al 1479. Niccolò perse la lite; ma ciò prova
ancora una volta come i monaci fossero esposti ad ogni sorta di
contestazioni, alla cui base,più che ragioni, vi erano dei semplici
pretesti.
Nel 1548, la Camera apostolica denunciava che la certosa aveva perso
ogni diritto su Tecchiena, per inadempienza delle clausole del contratto
di compravendita.
Si rimproverava ai monaci di non aver pagato l'annuo censo di due libbre
di cera; ma essi poterono provare di avere soddisfatto il loro debito,
anche se, per errore, l'offerta era andata al tesoriere della provincia
di Campagna, anziche alla Camera. La loro buona fede fu riconosciuta, e
ogni molestia cessò.
Noie ben più gravi e diuturne i monaci ebbero a soffrire, verso la metà
del Cinquecento, da parte del governatore generale della provincia, il
marchese Paolo Pallavicino, a motivo d'una rapina che alcuni mercanti
ebrei avevano sofferto nell'ambito della tenuta di Tecchiena. Applicando
alla lettera alcune ordinanze dei papi Giulio II e Leone X, il
governatore esigeva che i monaci risarcissero i mercanti di 400 duca ti,
che tanto valeva la merce della quale essi erano stati
alleggeriti.
A nulla valsero le ragioni addotte dai monaci, i quali facevano
osservare che essi non disponevano di sudditi e di vassalli, che, come
facevano i baroni, potessero armare, ma soltanto di pacifici coloni.
L'onere di proteggere le strade
ricadeva, perciò, sui comuni di Alatri e Ferentino, i quali
esercitavano poteri sovrani sui territori inclusi nella tenuta. Le loro
ragioni, respinte dal governatore, furono invece accolte dal tribunale
d'appello.
Ma il Pallavicino trovò altri pretesti per seguitare ad inquietare i
monaci. Tra l'altro, ingiunse loro di aprire, a proprie spese, una larga
strada pubblica che, tagliando in due la selva di Tecchiena,
congiungesse Alatri con Frosinone. Anche se, ancora una volta, i monaci
ebbero causa vinta, ciò non avvenne senza noie e rilevanti spese.
Si, perchè non è da oggi che il diritto a vivere in pace nella propria
casa, bisogna conquistarselo a duro prezzo!
Ma queste liti, lungi dall'esaurirsi nell'ambito delle aule della
giustizia, non di rado avevano degli strascichi sui campi contesi, e non
certo a colpi di leggi e di antichi documenti pergamenacei. No! Si
passava allora a vie di fatto, con incendi, abbattimento di alberi
fruttiferi e devastazione di campi seminati.
Nel corso del processo che, nel 1429, fu dibattuto tra la certosa e
Ferentino per affermare i rispettivi diritti sul monte Radicino, i testi
interrogati riferirono che gli uomini di Ferentino erano entrati nei
luoghi controversi,
« incidendo ligna, devastando granum ibidem existentem et comburendo
camam... ac mittendo ac retinendo in locis animalia ad pasquandum
».
Alcuni coloni della tenuta, cittadini di Alatri, lamentarono che i
Ferentinesi avevano appiccato il fuoco ai loro rifugi, e uno di essi
riferi che un Ferentinese gli aveva gridato da lungi: « O di Alatro,
va' a di' a chissi Alatrini d'Alatro ca avemo arsa la camarata e la
fratta, ch'avevano alle terre di S. Lucia et alle coste del monte
Radicino e dello fossato » 5. Tecchiena, insomma, seguitava ad essere
un pomo di discordia, anche se lo scontro per l'affermazione di diritti
su di essa non avveniva più, come nel Duecento, tra i Comuni di Alatri e
di Ferentino.
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