Anche se nella certosa di
Trisulti seguitavano a dimorare alcuni monaci (il governo italiano
l'aveva esclusa dalla vendita, poi che intendeva dichiararla monumento
nazionale, come di fatto avvenne con decreto del 17 luglio 1879),
l'Ordine rimaneva pur sempre soppresso, e quindi incapace di diritti. Fu
perciò necessario intestare la riacquistata tenuta di Tecchiena a
persone particolari.
Dopo matura riflessione, ne divennero proprietari, a nome della certosa,
il priore don Michele Duca e il dinamico don Benedetto Giovannangeli.
Nello spazio di appena nove anni, quest' ultimo riusci a liberare la
certosa dall'enorme debito contratto. Sembrava, quindi, che tutto fosse
rientrato nella normalità e che si potesse sperare in giorni sereni, da
occupare, come era avvenuto prima della bufera delle soppressioni
(cinque in 75 anni!), tra lavoro e preghiera. Purtroppo, però, nel giro
di appena otto mesi, tra il febbraio e l'ottobre 1887, morivano i due
titolari della grangia di Tecchiena.
Altre noie burocratiche, altre spese per il passaggio dell'eredità al
nuovo intestatario e, soprattutto, altra
inattesa diabolica macchinazione contro il buon diritto dei monaci sulla tenuta. Ecco di che si tratta.
Il nuovo erede, don Vincenzo Renzi, aveva appena pagata l'ingente tassa di successione allorche si presentò in Alatri un
cognato del Giovannangeli, certo dottor Raffaele Scaramucci, con un
testamento che egli diceva scritto di propria mano dal defunto suo parente, nel
quale veniva dichiarato erede d'ogni avere Andrea Giovannangeli,
fratello del monaco defunto.
Senza entrare nel merito della lunga vertenza giudiziaria, basti dire
che il testamento era falso; a scriverlo era stato certo Ettore Strambi,
un litografo e calligrafo peritissimo, oriundo di Civitavecchia e
domiciliato in Alatri. Tutta la vicenda ha del romanzesco, poiche lo
Strambi, trovandosi in fin di vita, accusò in confessione l'imbroglio.
Com'era ovvio, il sacerdote gli ingiunse l'obbligo della riparazione,
anche perchè, oltre i danni materiali cagionati alla certosa, ne era andata di
mezzo la fama del defunto don Benedetto Giovannangeli.
Lo Strambi, insperatamente guarito, mantenne l'impegno. Ma non gli fu
facile esser creduto. Per convincere il giudice, dovette ricorrere ad uno stratagemma: gli
presentò un foglio in cui ne aveva contraffatto calligrafia e firma in modo cosi abile, che il magistrato non seppe
distinguere lo scritto autentico da quello falso.
Finalmente, dopo un ventennio di logoranti e dispendiosissime vicende
giudiziarie, i monaci riebbero di diritto la loro grangia: mancò, però, una sentenza che, facendo piena
luce sulla macroscopica ed infame trama ordita ai loro danni, riabilitasse la memoria del Giovannangeli. Erano
ormai molto lontani i tempi in cui, per truffa tori della risma dello Scaramucci e dello Strambi,
gli antichi Statuti di Alatri prevedevano l'amputazione della destra e il taglio della lingua 6. E cosi il « dottore »
pote continuare indisturbato ad erudire il popolo della nuova Italia sul modo di fabbricar trappole impunemente!
L'annosa vertenza fu esiziale per la tenuta, la cui amministrazione dovette contrarre grossi mutui; i monaci persero
l'autorità morale e la volontà di continuare nella secolare gestione; inoltre, la popolazione dei coloni
si infittiva e con ciò stesso diventava sempre più gravoso l'esercizio degli usi civici del legnatico e del pascolo nei
campi non recinti. Intanto il numero dei monaci agricoltori, carpentieri
ed alleva tori di bestiame si era notevolmente assottigliato.
La certosa di Trisulti dovette perciò affrontare una grave decisione, angosciosa e nello stesso tempo ineluttabile, quella di
vendere la grangia di Tecchiena, la « perla» dei suoi possedimenti
terrieri. Date le circostanze, più che di una vendita, si trattò d'una svendita. L'acquirente, Arturo
Pisa del fu Abramo, uno scaltro mercante ebreo, l'acquistò sborsando meno di un quarto del prezzo
reale e stimato. Con istrumento del 2 marzo 1918, entrò in possesso del castello e della tenuta, di ben 969 ettari,
con quanto in essi « di attività e di passività e di ricche suppellettili e di attrezzi e di macchinari e di scorte si
conteneva, e assunse su di se le liti e gli oneri » 7.
Da accorto uomo di affari, il Pisa si affrettò a rivendere il tutto, a
prezzo maggiorato, al mercante di campagna Vincenzo Munzi, e lo fece per
privata scrittura,non registrata ne trascritta. Il Munzi, poi, «
spogliò completamente il castello e il tenimento delle
suppellettili,degli attrezzi, dei macchinari e delle scorte », e
nondimeno lo rivendette a prezzo piu alto al conte Domenico Antonelli,
ancora una volta con privata scrittura, ne registrata ne trascritta .
Ma
poi, il 25 ottobre 1926, l'Antonelli ne assumeva la proprietà con
istrumento pubblico rogato dal notaio Ermenegildo Peruzzi. Il 9
settembre 1939, nuovo passaggio di proprietà, nelle mani dei fratelli Giuseppe e Salvatore
Minotti di Frosinone.
Come si vede, la già operosa e prospera tenuta era diventata oggetto di baratti, di spoliazioni, di liti, promosse, queste
ultime, dagli abitanti di Tecchiena che reclamavano di non essere impediti nel godimento degli
usi civici previsti dagli antichi Statuti e consacrati da una consuetudine secolare.
Un antico detto tedesco suona cosi: « Come si sta bene sotto il pastorale! », con riferimento alle condizioni
vantaggiose di chi viveva sulle terre ecclesiastiche. Forse, i contadini che erano costretti a ricorrere ai tribunali,
rimpiangevano i tempi in cui la tenuta dipendeva dai monaci, anche se le liti non si erano lasciate desiderare
neppure allora, dal momento che, proprio per evitarle, i certosini si erano decisi a vendere.
Finalmente, il 7 maggio 1940 si ebbe l'ultimo passaggio di proprietà,
dai Minotti ai fratelli Carlo, Enrico e Giulio Gra . Ma ormai il comprensorio dell'antica tenuta si era
notevolmente ristretto, cambiando quasi totalmente la sua fisionomia.
Infatti, al posto delle secolari selve vi sono ora campi coltivati, disseminati di ridenti
case coloniche e villette occhieggianti tra alberi e vigneti.
Il Monticchio si è ricoperto di un fitto bosco e, al viaggiatore che
percorre la via che congiunge la Casilina alla Sublacense, sembra far corpo col
più alto e spoglio monte
Radicino. Alle sue falde sorge ancora, imponente e dalle linee architettoniche movimentate, la sede della grangia.
A guardarla da lontano, sembra molto ben conservata, anche se è
difficile cogliervi segni di vita. Solamente con l'immaginazione si può evocare l'incessante via vai dei
monaci che, per oltre mezzo millennio, andarono e vennero dai campi. Ora
tutto tace, e si ha l'impressione di passare dinanzi ad una casa deserta. Eppure i campi sono
coltivati: quel che una volta facevano centinaia di monaci e di
contadini, oggi lo realizzano poche macchine agricole; e nei giorni festivi il silenzio è rotto ancora dalla
campanella della chiesa di San Bartolomeo, che chiama a raccolta gli abitanti dell'antico « tenimentum» per l'incontro con
Dio nella preghiera comune.
Forse più d'un fedele, nell'atto di attraversare il monumentale portone
esterno che immette nella sede della grangia, alzando gli occhi, scorge ancora, intatto, uno
stemma, formato dalle lettere CAR, bizzarramente intrecciate tra loro.
Vuol dire « Cartusia », certosa, ed è l'emblema dei certosini, quei monaci che, con la loro
secolare presenza ed operosità, diedero rilevanza storica al castello di
Tecchiena.
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